Economia

Carnevale Maffè: L’industria diventi più desiderabile

Carlo Alberto Carnevale Maffè, Professor of Strategy and Entrepreneurship presso SDA Bocconi School of Management Università Bocconi dove è stato responsabile del Master in Strategia aziendale. Svolge il ruolo di advisor strategico per multinazionali e centri di ricerca europei. E' editorialista economico per Mediaset, commentatore per Sky TG Economia e collabora con primarie testate giornalistiche.

Quattro chiacchiere con Carlo Alberto Carnevale Maffè, professore, opinionista e collaboratore di prestigiose testate, ha risposto alle nostre domande a 360 gradi e senza risparmiarsi dando anche qualche utile consiglio a chi di dovere.

di Stefano Belviolandi e Federica Manente

A SETTEMBRE 2022 MOLTI ANALISTI PREVEDEVANO UNA RECESSIONE E LE STIME SUL PIL DEL MEF SEMBRAVANO OTTIMISTICHE, SE NON ESAGERATE (+0,6%). I DATI DELL’ECONOMIA ITALIANA NEL PRIMO TRIMESTRE SONO MIGLIORI DELLE ATTESE E PER LA COMMISSIONE UE LA CRESCITA SARÀ +0,8%. IL SISTEMA PRODUTTIVO ITALIANO STA REAGENDO BENE AGLI SHOCK?
«Negli anni 2021 e 2022 il sistema produttivo italiano ha fatto registrare performance davvero significative soprattutto nella componente export, cresciuta di 7/8 punti percentuali l’anno. Non stupisce che il 2023 goda del trascinamento di questo recupero di quote del sistema produttivo italiano nel mercato internazionale. In particolare la componente industriale manifatturiera, quella della meccatronica e della componentistica che è l’eroe nascosto, ma sempre fondamentale, della nostra crescita dell’export, ha contribuito significativamente alla crescita del PIL. Il Paese ha avuto, purtroppo, un grave danno dato dall’aumento dei costi dell’energia che hanno peggiorato la bilancia commerciale, che è stata salvata proprio dal sistema produttivo industriale e in parte anche dal turismo internazionale che, nel 2022, ha quasi completamente recuperato i livelli pre-pandemia e si predispone a un anno con ottime prospettive. Le previsioni per il 2023, con il reingresso della Cina sul mercato internazionale, ovviamente fanno ben sperare. Non solo non mi stupisco, dunque, ma ero tra coloro che avevano anticipato una crescita perché i numeri sugli investimenti rimanevano confortanti e il sistema produttivo italiano segnalava di avere accettato la sfida del PNRR, orientando le proprie scelte verso l’automazione, la digitalizzazione e la trasformazione energetica. Questi sono da considerare ormai trend strutturali che, ovviamente, accompagnano le scelte industriali. Le prospettive di tenuta della manifattura italiana sono quindi da ritenersi realistiche. Perché? Perché il sistema produttivo italiano è così diversificato e così specializzato in nicchie che risulta più flessibile rispetto ad altri, in particolare rispetto a quello tedesco, al quale rimane comunque legato a doppio filo e che quindi potrebbe in parte zavorrare le dinamiche italiane. Il nostro Paese dipende meno da Cina e Russia rispetto alla Germania: nel nuovo scenario geopolitico e tecnologico, avendo un portafoglio di interscambi più distribuito, risulta più agevole per noi riequilibrare i rapporti con l’estero».

A UN RECENTE CONVEGNO LEI HA SOTTOLINEATO: “BASTA ALLARMISMI, L’ITALIA STA CRESCENDO”. A COSA SI RIFERIVA?
«Gli allarmismi si erano diffusi e sono circolati fino ai primi giorni di gennaio, ma erano secondo me ingiustificati, come hanno poi dimostrato i numeri del primo trimestre 2023: gran parte degli analisti e la politica ripetevano, un po’ in conflitto di interessi, previsioni apocalittiche per l’anno in corso. In realtà l’economia italiana, che rispetto ad altre è più flessibile, più diversificata e in nicchie di mercato per ora meno esposte ai cicli di sostituzione tecnologica, andava avanti bene già nel 2022 e non si vedeva perché tutto questo si dovesse interrompere improvvisamente. È vero che la crisi geopolitica con l’aggressione russa all’Ucraina aveva certamente raffreddato il ciclo degli investimenti ma noi non eravamo, come sistema economico, particolarmente esposti nei confronti di quelle regioni dal punto di vista dell’export, certamente lo siamo dal punto di vista dei fattori produttivi e, in effetti, il vero problema non è stato la crescita del fatturato ma la struttura dei costi. Molte aziende hanno subito una compressione delle marginalità dovuta all’aumento dei costi, ma in termini di competitività dei prodotti e di mercato finale non c’erano i segnali di un’apocalisse; c’erano semmai segnali di una legittima preoccupazione, di un raffreddamento delle aspettative dopo il rimbalzo significativo degli anni 2021 e 2022. Al contrario sono più preoccupato nel medio termine, perché ovviamente servirà un significativo inserimento di risorse per riguadagnare competitività e crescita nel lungo periodo: e queste risorse non vengono dal mercato dell’energia e nemmeno da quello delle merci, ma sono quelle che afferiscono al capitale umano. Nel nostro Paese non ho il sentore di un vero e proprio rischio legato al fatto di non avere abbastanza cuori giovani e menti fresche da mettere al servizio di questo grande asset che è l’industria italiana».

Carnevale Maffè: L'industria diventi più desiderabile
Carlo Alberto Carnevale Maffè

UE E USA: IL 9 FEBBRAIO SCORSO IL CONSIGLIO EUROPEO HA APPROVATO IL PIANO INDUSTRIALE COMUNITARIO. SECONDO LEI È SUFFICIENTE ALL’EUROPA PER BILANCIARE L’EFFETTO CALAMITA DEGLI USA AGLI INVESTIMENTI?
«L’Europa è arrivata tardi a capire che serviva una politica industriale europea ma, come spesso accade, è arrivata prima degli altri a redigere una regolamentazione. Gli americani, invece, hanno scelto la strada opposta: poca regolamentazione, anche freddezza nei confronti, per esempio, della transizione energetica e poi il proverbiale pragmatismo americano: 390 miliardi di dollari sul tavolo, piani di investimento e di sussidio… anche di natura che non può non essere definita protezionistica, che hanno spiazzato gli europei, i quali avevano intrapreso invece la regolamentazione di indirizzo al 2035. L’Italia si è lamentata un po’ colpevolmente e un po’ giustamente perché soldi da mettere sullo stesso tavolo degli incentivi industriali non li ha, essendoseli spesi in tutt’altro ossia in spesa corrente, in bonus che hanno drogato il mercato senza rafforzare a sufficienza il presidio dei nuovi ambiti tecnologici. Quindi l’Europa probabilmente avrà bisogno di un nuovo piano federale di politica industriale. Il vero modello di risposta al piano americano è un piano di investimento in “beni pubblici europei” che preveda per esempio infrastrutture energetiche condivise, architetture di cybersecurity e di difesa, investimenti su elettronica e intelligenza artificiale, biotecnologie e aerospazio».

IL SETTORE MANIFATTURIERO HA ATTRAVERSATO DIVERSE SFIDE NELLE QUALI L’EVOLUZIONE TECNOLOGICA HA FATTO DA TRAINO. QUALI SONO, SECONDO LEI, I TREND O MEGATREND FUTURI CHE CARATTERIZZERANNO E CONDIZIONERANNO IL SETTORE?
«L’industria deve ritornare a essere desiderabile e attrattiva alle nuove generazioni, e deve essere vista come punto centrale ai fini delle scelte di politica industriale, sociale, educativa e green. Le nuove tecnologie stanno convergendo verso un nuovo modello di industria: parliamo di robotica avanzata, collaborativa, intelligenza artificiale, economia circolare, servitization. Con i fenomeni geopolitici e reshoring si riabilita un nuovo concetto di manifattura che riacquista un legittimo orgoglio, ma non può tornare nel vecchio modello di fabbrica, deve soprattutto riaffermarsi a partire dalle scuole, dalle aule parlamentari, dal dibattito sociale e culturale. Se vince la battaglia della cultura e della società la manifattura vince anche la battaglia dell’economia, altrimenti apparirà sempre agli occhi dei giovani come sporca, brutta e cattiva, da nascondere, soggetta a vincoli burocratici e a procedure autorizzative farraginose e quindi rimarrà svantaggiata rispetto a Paesi che la mantengono correttamente al centro del disegno politico e sociale».

AI FINI DELLA FORMAZIONE DEI GIOVANI STUDENTI DI OGGI, FUTURI LAVORATORI DI DOMANI, QUALI SONO SECONDO IL SUO PUNTO DI VISTA I RUOLI CHE DOVREBBERO AVERE LE SCUOLE DI OGNI ORDINE E GRADO?
«Sono le imprese industriali per prime che devono tornare a scuola, e possibilmente a “fare scuola”. L’industria deve ridiventare “sexy” agli occhi degli studenti. La scuola deve aprirsi ed evitare di essere troppo autoreferenziale, a partire dalle scuole secondarie inferiori e superiori, per poi proseguire in un diverso rapporto tra università e mondo delle imprese. La scuola deve potere includere la formazione economica di base a tutti i livelli, perché è inaccettabile una separazione netta tra la cultura classica, che rimane certamente un elemento distintivo, e la cultura d’impresa. E sfatiamo pure il mito che la scuola italiana non produca studenti di qualità: il problema è, semmai, la grande dispersione della qualità scolastica tra diverse aree e regioni del Paese. Andrebbe nettamente migliorata la propensione a guardare al settore industriale come riferimento: bisogna non solo fare sì che le aziende industriali tornino a fare scuola, ma che la scuola racconti l’industria in maniera diversa. E qui c’è da fare uno sforzo narrativo. Un esempio concreto lo si può trovare nell’industria tessile. Se pensiamo a come oggi sia percepito questo tipo di industria ci accorgiamo che, nel complesso, non parliamo più di industria di soli manufatti, ma vediamo che si è trasformata la percezione del prodotto in un articolato processo narrativo che guarda ai simboli e all’estetica, alla creatività, al bello, al lusso… Penso che tutta la manifattura debba seguire questo esempio. Abbiamo bisogno di una scuola che guardi al mondo manifatturiero in maniera ampia e diversificata perché c’è dignità e c’è bellezza, c’è sfida tecnologica e sociale in tutti i segmenti. Il nostro Paese ha bisogno di garantire che emergano professionisti profondamente equilibrati nella loro cultura sociale e di sensibilità tipica del modello italiano, ma con capacità poi di fare e di tradurre tutto questo in prodotti d’eccellenza».

Carnevale Maffè: L'industria diventi più desiderabile
Carlo Alberto Carnevale Maffè

LAVORO E CAPITALE NON SONO PIÙ GLI INGREDIENTI TRADIZIONALI PER FARE IMPRESA: I MODELLI ORGANIZZATIVI INTRODOTTI DALLE TECNOLOGIE DIGITALI E DALLE LOGICHE DELLA SHARING ECONOMY HANNO CAMBIATO TUTTE LE REGOLE DEL GIOCO? A QUALE SCENARIO CI STIAMO AFFACCIANDO?
«Ci sono nuove forme di lavoro: basti pensare al software come forma di estensione dell’intelligenza umana e a come è cambiato profondamente l’approccio tra lavoratore e datore di lavoro. Dovremmo parlare di un lavoro sempre più agile, ibrido, simbiotico fra uomo e macchina, dove la macchina è dotata di intelligenza e capacità di elaborazione locale. Ormai il rapporto tra uomo e interfaccia digitale, di qualsiasi forma di macchina si parli, è conclamato. Dopo la pandemia si è assistito a una profonda interazione tra esseri umani e piattaforme digitali, se non altro per continuare a vivere e lavorare. Oggi, l’idea di un bilanciamento tra vita privata e lavoro ha cambiato le priorità di lavoratori e imprese e il concetto stesso di lavoro, che resta centrale sui tavoli delle trattative ma va rivisto nella sua più antica tradizione. Anche il capitale sta cambiando pelle, sia perché la moneta cambia natura sia perché la finanza assume contorni completamente diversi, sia perché la forma tradizionale di “proprietà del bene” ha perso la sua valenza storica e sociale. Lo stiamo vedendo nelle automobili, dove le diverse forme di noleggio ormai rappresentano circa la metà delle auto vendute, oppure negli immobili, meno in Italia ma molto di più nel resto d’Europa, dove la proprietà diventa sempre più condivisa prevalendo il concetto di affitti brevi, per esempio. Detto questo, il capitale cambia natura, le forme di venture capital e di private equity vanno a sostituire il classico capitale bancario familiare nel fornire le risorse per l’innovazione. Le competenze non risiedono più solo negli esseri umani e il vantaggio che stiamo costruendo, come generazione tecnologico-digitale, è che riusciamo progressivamente a mettere la conoscenza, il know how, il savoir faire dentro strutture formalizzate che poi sono quelle che alimentano l’intelligenza artificiale di oggi e di domani. Questo comincia a essere vero nella medicina, nella diagnostica, nel controllo della qualità, nei sistemi di sicurezza. È una forma di lavoro che da flusso, quindi orario, diventa stock, cioè patrimonio».

IN CHE MODO LA DIGITALIZZAZIONE PUÒ AIUTARE LE IMPRESE A RESTARE COMPETITIVE E TROVARE QUESTA NUOVA SVOLTA EVOLUTIVA?
«La digitalizzazione è come l’elettrificazione: una condizione di sopravvivenza. Non tutte le imprese se ne sono rese conto: quelle ancora dormienti sono degli zombie che stanno camminando su un terreno minato dove potrebbero saltare non appena il digitale prende piede. L’arrivo di Industria 4.0 ha forzato l’apertura al digitale per cui alcune aziende hanno esplorato, oltre all’interscambio di dati e alla connettività, anche l’interconnessione di filiera e l’interoperabilità. Oggi c’è una prepotente forza che spinge verso la digitalizzazione. Un esempio lampante di sfruttamento di questo beneficio è quello della filiera dell’automotive dove, oltre alla produzione, la digitalizzazione è il perno attorno al quale si documenta ciò che si produce, si certifica e si misura anche l’impatto ambientale. L’evoluzione verso il cloud e, di conseguenza, la virtualizzazione dei dati hanno abbassato la soglia di accesso al digitale ampliandolo anche alle piccole e medie imprese. E il Covid ha di nuovo detto la sua al punto che le imprese hanno dovuto imparare a fare lavorare il personale d’ufficio da remoto, vendere macchine via Internet, fare manutenzione da remoto e installazioni con le webcam».

Carnevale Maffè: L'industria diventi più desiderabile
Carlo Alberto Carnevale Maffè

IL 2022 È STATO DEFINITO UN ANNO DA RECORD PER L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE, CON UNA INCIDENZA PIÙ CHE CONCRETA SULLA PROGETTUALITÀ DELLE AZIENDE. QUALE LA SUA OPINIONE E COSA VEDE ALL’ORIZZONTE?
«L’intelligenza artificiale è come la robotica, ma applicata alla mente e agli intangibili, portatore di benefici come fece l’automazione industriale 30 o 40 anni fa quando grazie a essa le aziende andarono a sostituire processi manifatturieri pericolosi, pesanti, rischiosi, dannosi o ripetitivi. Oggi l’intelligenza artificiale è utile al fine di controllare la qualità, sul riconoscimento dei difetti, nell’efficientamento, nell’identificazione di eventuali rischi di malfunzionamento. L’intelligenza artificiale è un’occasione per ripensare i processi organizzativi e per delegare alle macchine i compiti che verrebbero scaturiti da processi di interazione alienanti. Le applicazioni dell’intelligenza artificiale non sono solo quelle clamorose che vediamo sui giornali, ma sono anche quelle più umili, più micro, ma molto utili all’approccio del fare impresa in modo preciso, puntuale e rapido. Probabilmente l’intelligenza artificiale è il migliore investimento che l’organizzazione delle imprese manifatturiere potrebbero fare nei prossimi anni: l’unico dettaglio a cui prestare attenzione è la giusta collocazione in azienda che non significhi la sostituzione degli esseri umani, ma che vada a loro supporto».

INDUSTRIA 5.0: RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, CULTURALE OD OPERAZIONE DI MERO MARKETING?
«È anche un’operazione di marketing, perché non c’è evoluzione condivisa senza una corretta comunicazione. Definirei Industria 5.0 come una naturale evoluzione di quello che è stato Industria 4.0. Dopo un ‘insieme di macchine che parlavano tra loro’, con il 5.0 vedremo le macchine parlare con gli essere umani e viceversa, il tutto in modo sostenibile e responsabile. Secondo me, Industria 5.0 è un processo industriale ibrido tra uomo e macchina, dove l’uomo non necessariamente lavora in azienda, a volte è il fruitore, a volte è l’operatore finale. 5.0 è l’abbattimento del confine fra uomo e macchina, è quel territorio ibrido in cui le macchine parlano un linguaggio comprensibile agli uomini e viceversa: la quintessenza della collaborazione è ciò che definisce oggi l’Industria 5.0».

COSA DEVE FARE ANCORA IL GOVERNO PER INCENTIVARE O ACCELERARE LA RIPRESA ECONOMICA ANCHE IN CAMPO
MANIFATTURIERO?
«Il Governo deve procedere a una massiccia semplificazione. Oggi, nel nostro Paese, il fare impresa vede molti ostacoli: la burocrazia, la soprintendenza, i comuni, i vincoli e i cavilli. Non è possibile che un normale intervento in ambito manifatturiero richieda anni laddove in altri Paesi europei sono previsti mesi o forse settimane. Se, giustamente, si chiede allo Stato di fare un passo indietro nella burocrazia, di contro alle imprese si chiede di fare un passo avanti nella responsabilità. In secondo luogo, a mio avviso, il Governo dovrebbe intervenire sulla struttura del capitale, estremamente frammentato. Lo Stato non dovrebbe perpetuare il capitalismo familistico, ma dovrebbe stimolare l’apertura del capitale, la managerializzazione delle imprese con specifici supporti fiscali. Un altro tema ancora caldo per il Governo è la tecnologia industriale. I benefici fiscali che sono stati utilissimi per Industria 4.0 dovrebbero essere stabili, permanenti, orientati a una politica industriale di digitalizzazione integrale che guardi allo sviluppo di ecosistemi. Il Governo dovrebbe puntare su un piano industriale 5.0 di durata almeno decennale. Infine, la legislazione su scuole e lavoro. In Italia la scuola è troppo segregata e la legislazione sul lavoro impone alle aziende di farsi carico di garanzie che dovrebbero essere a carico dello Stato».