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Italia, adesso scelte forti e veloci

Le aziende italiane sono tornate al lavoro, ma quello in cui si trovano non è uno scenario normale. Se il 2020 appare tremendo guardando soltanto ai bilanci, quali sono iniziative e misure necessarie perché almeno il 2021 abbia un segno differente?

di Bruno Marchi

Come l’Italia uscirà dalla crisi verso quale nuova “normalità” è la domanda che tutti si fanno da quando, finito il lockdown, le attività economiche fermate per contrastare la pandemia hanno avuto la possibilità di tornare al lavoro, insieme a quelle che avevano potuto farlo anche nel periodo della chiusura. Ma sia le prime che le seconde si sono trovate davanti una normalità che tale non è affatto. Il Nord del Paese, l’area più produttiva e importante per la quota di PIL, è quella che ha sofferto e soffre di più. La Lombardia registra, già nel primo trimestre, un calo della produzione di dieci punti sia rispetto al periodo precedente.

Secondo la rilevazione Unioncamere Lombardia-Confindustria, l’indice della produzione si riporta a ridosso di quota 100, livello base del 2010, annullando così nello spazio di pochi mesi la crescita faticosamente ricostruita negli anni seguiti alla recessione dello scorso decennio. Una crisi che colpisce imprese di ogni dimensione e di tutti i settori, anche se sono quelli di investimento a pagare in media un prezzo superiore, mentre i beni di consumo finale cedono “solo” il 7,6%. Così come si registra anche nelle altre regioni, l’alimentare (–1,4%) e la chimica-farmaceutica (–1,7%) riescono a contenere i danni, che invece sono ingenti altrove. L’impatto dell’emergenza sanitaria è infatti già pesante nel primo trimestre per pelli-calzature –23%, abbigliamento –19%, tessile (–13,4%). E cali non dissimili vi sono per legno e mobilio (–18,8%), siderurgia (–15,8%), mezzi di trasporto (–13,5%) e meccanica (–10,5%). Il crollo verticale della domanda di auto, in Italia come nel resto del mondo, è alla base della caduta registrata nel territorio di Brescia, la peggiore tra le province, in frenata quasi del 15% con l’indebolimento dell’intera filiera della componentistica, della meccanica, della siderurgia. In calo anche i ricavi, –8,2% (tornati ai livelli del 2017), così come le commesse, in frenata soprattutto sul mercato interno (–9,5%) ma anche all’estero (–5%). Nel periodo considerato l’impatto sull’occupazione non si è ancora evidenziato, ma l’impennata della CIG sta a testimoniare le difficoltà delle aziende: il 56% dichiara di avere utilizzato ore di cassa integrazione. Anche i segnali provenienti dalle previsioni non confortano. Le aspettative degli imprenditori industriali sulla domanda per il prossimo trimestre toccano il minimo storico sia per il mercato interno sia per quello estero. «La ripresa dell’attività a partire da maggio – ha detto Gian Domenico Auricchio, presidente di Unioncamere Lombardia, commentando i numeri – rimanda le prospettive di recupero a giugno, compromettendo così gran parte del primo semestre, anche a causa delle numerose scorte accumulate». I numeri pubblicati da Istat relativi al mese di aprile, depurati dagli effetti stagionali, confermano sul piano nazionale quelli rilevati da Unioncamere- Confindustria in Lombardia. L’indice della produzione industriale vede un vero crollo del 42,7% tra gennaio e aprile 2020. È il dato peggiore di sempre, sia per l’entità che per la rapidità del crollo. Nel 2009, nella recessione seguita alla crisi Lehman Brothers, la produzione industriale diminuì “solo” del 25,9% rispetto all’anno precedente.

Come 10 anni fa, lo stop produttivo ha colpito beni il cui acquisto – specie se di rimpiazzo rispetto all’esistente – può essere rinviato: le automobili e i macchinari e le loro componenti meccaniche, dove il crollo ha numeri mai visti sinora: –75% circa per l’automotive, –55% per il settore meccanico. Nella crisi precedente, i numeri furono rispettivamente 36 e 40%, ma spalmati sui 12 mesi, adesso questo choc è avvenuto in un solo mese… ed è stato aggravato dal fatto che anche chi avrebbe voluto e potuto spendere il proprio denaro, non ha potuto farlo. La chiusura totale degli esercizi commerciali ha quasi azzerato anche la produzione dei cosiddetti prodotti semidurevoli come l’abbigliamento, in calo del 70%. Da qui l’allarme lanciato da Confcommercio, che vede a rischio un milione di posti di lavoro nel settore.

2020, annus horribilis

Secondo altri dati pubblicati da Istat, nella Fase 1 dell’emergenza sanitaria (tra il 9 marzo e il 4 maggio) il 45% delle imprese con 3 e più addetti (458 mila, che assorbono il 27,5% degli addetti e realizzano il 18,0% del fatturato) ha sospeso l’attività. Per il 38,3% (390 mila imprese) la decisione è stata presa a seguito del decreto del Governo, mentre il 6,7% (68 mila) lo ha fatto di propria iniziativa. Il rapporto, secondo i dati relativi al mese di maggio, riferisce che poco oltre la metà delle imprese (51,5%, con un’occupazione pari al 37,8% del totale) prevede una mancanza di liquidità per far fronte alle spese che si presenteranno fino alla fine del 2020. Il 38% (con il 27,1% di occupati) segnala rischi operativi e di sostenibilità della propria attività e il 42,8% ha richiesto il sostegno per liquidità e credito. Riorganizzazione di spazi e processi (23,2% delle imprese) e modifica o ampliamento dei metodi di fornitura dei prodotti/servizi (13,6%) sono le principali scelte adottate per fare fronte alla crisi. Oltre il 70% delle imprese (che rappresentano il 73,7% dell’occupazione) dichiara una riduzione del fatturato nel bimestre marzo-aprile 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019: nel 41,4% dei casi il fatturato si è più che dimezzato, nel 27,1% si è ridotto tra il 10 e il 50% e nel 3% dei casi meno del 10%; nell’8,9% delle imprese il valore del fatturato è invece rimasto stabile. Il 14,6% delle imprese dichiara di non avere registrato alcun fatturato, ma la quota è molto più elevata tra quelle attive nell’ambito delle attività sportive, di intrattenimento e divertimento (58,2%), tra le agenzie di viaggio e i tour operator (57,1%) e i servizi di alloggio (50,9%). Seguono le imprese che si dedicano ad attività creative e artistiche (42,5%), le case da gioco (36,6%) e i servizi di ristorazione (35,4%). Inoltre, non ha registrato fatturato un quarto delle imprese degli altri servizi alla persona (28,9%), delle attività culturali (28,7%), dell’istruzione (26,3%) e dell’assistenza sociale non residenziale (24,8%).

Per fronteggiare gli effetti dell’epidemia, le imprese hanno fatto ricorso soprattutto alla CIG (Cassa Integrazione Guadagni) o a strumenti analoghi come il FIS (Fondo Integrazione Salariale). La CIG è stata utilizzata da oltre il 70,2% delle aziende con almeno 3 addetti, con poche differenze tra classi dimensionali. L’introduzione o diffusione del lavoro a distanza (in Italia ormai ribattezzato “smart working”) ha coinvolto quasi un quarto deelle unità, ma con forti differenze in funzione delle dimensioni aziendali: mentre le medie e grandi lo hanno adottato rispettivamente nel 73,1 e nel 90% dei casi, ciò è avvenuto solo per il 37% delle piccole e il 18% delle microimprese. A livello settoriale, sono soprattutto le imprese delle costruzioni e dei servizi ad avere sospeso l’attività: il 58,9% e il 53,3% rispetto al 36,0% dell’industria in senso stretto e al 30,3% del commercio. Ma il dato più preoccupante è la perdita di fatturato. Oltre il 70% delle imprese (che rappresentano il 73,7% dell’occupazione) dichiara una riduzione del fatturato nel bimestre marzo-aprile 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019: nel 41,4% dei casi il fatturato si è più che dimezzato, nel 27,1% si è ridotto tra il 10 e il 50% e nel 3% dei casi meno del 10%; solo per l’8,9% delle imprese il valore del fatturato è rimasto stabile.

E finalmente, una risposta europea

Ormai tutte le previsioni mostrano zero possibilità di salvare i bilanci del 2020. Per il 2021 c’è maggiore incertezza, ma a giudizio di molti economisti e leader d’azienda i danni causati all’economia dal CoViD-19 avranno effetti negativi persistenti sulla crescita ben oltre il 2020. Come uscirne? Sono indispensabili forti misure di stimolo alla domanda se si vuole fare ripartire l’attività economica. A parole sono tutti d’accordo, governi e istituzioni internazionali. Ma, anche limitando lo sguardo all’Unione Europea, le politiche adottate dai governi sono sensibilmente diverse. Fra essi, il governo tedesco è un caso esemplare. All’inizio di giugno ha approvato un programma di stimolo fiscale che include, oltre a varie misure di sostegno all’investimento pubblico e privato e alle piccole e medie imprese, la diminuzione temporanea dell’IVA già da luglio, col tasso standard che scenderebbe dal 19 al 16%. In tutto, un bazooka di 130 miliardi per i prossimi due anni pari al 3% del PIL tedesco, volto a sostenere “adesso” la domanda, senza attendere i soldi dei futuri – e incerti – interventi europei. Anche quando (e se) arriveranno i fondi del Recovery Plan, in discussione in questi mesi, essi con tutta probabilità si spalmeranno su un periodo di 2-3 anni e sarà difficile che possano avere effetti a breve. Le strette interconnessioni delle economie europee permetteranno anche agli altri Paesi europei di beneficiare dello stimolo alla domanda tedesca. Ma gli effetti sarebbero ben maggiori se anche altri Paesi seguissero l’esempio tedesco, utilizzando la temporanea sospensione delle regole fiscali europee. Nell’attesa di politiche economiche più incisive l’economia italiana, insieme a quelle della maggior parte dei Paesi europei, deve fare affidamento più che altro sull’azione della BCE. La quale prevede, come scenario di base, una flessione del PIL dell’8,6% nel 2020 con una ripresa del 5,2% nel 2021 e del 3,3% nel 2022; indicazioni peraltro caratterizzate da un “elevato grado di incertezza”. I prossimi 2 anni, dunque, non permetteranno di recuperare in pieno i livelli del 2019. Posto 100 il livello del 2019, il 2022 si chiuderà con un PIL a quota 99,22. L’impegno della BCE si concretizza nella ripresa dello strumento del Quantitative Easing e nel suo potenziamento per sostenere l’economia dei Paesi dell’Unione. La Banca Centrale Europea ha aumentato di 600 miliardi il Pepp, il “piano pandemico” di acquisto di titoli, portandolo a 1350 miliardi e prolungandone la scadenza da dicembre 2020 almeno fino a giugno 2021 quando, si spera, l’inflazione dovrebbe ricominciare a risalire, come ha spiegato la presidente Christine Lagarde. Sono invece rimasti invariati i tassi di interesse: a quota zero il tasso di riferimento, e al –0,50% il tasso sui depositi presso la BCE. Potrebbero però scendere in futuro, se il target di inflazione (il 2%) non dovesse essere raggiunto nel medio periodo. Per adesso, il rischio di deflazione non è del tutto escluso, anche se le proiezioni della BCE prevedono un’inflazione molto bassa, ma non negativa, per il 2020: +0.3%, seguita da uno 0,8% per il 2021 e l’1,3% per il 2022. Ancora molto lontano, però, dall’obiettivo del 2%. Ma, come ripete Lagarde all’unisono con un gran numero di economisti e business leader, l’azione della BCE seppure indispensabile non sarà sufficiente se i governi non prenderanno a loro volta le necessarie misure di politica economica e soprattutto fiscale. Alcuni lo stanno già facendo, altri per ora dicono che lo stanno facendo. Gli imprenditori italiani sono ora in attesa che alle parole seguano fatti concreti… ma non potranno aspettare a lungo.

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