Nata a Napoli nel 1967 e laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Torino, Licia Mattioli è amministratore delegato della Mattioli SpA dal 2013 e Vice Presidente di Confindustria per l’Internazionalizzazione e l’attrazione investimenti.
di Edoardo Oldrati e Raffaella Quadri
Licia Mattioli ricopre anche la carica di Vice Presidente della Compagnia di San Paolo, membro del Consiglio di Territorio Nord Ovest Unicredit, Consigliere European School of Management Italy (ESMI) Board, Consigliere Invitalia Global Investment e Vice Presidente del Comitato Leonardo. Cavaliere del Lavoro dal 2017, Mattioli ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui la Mela d’oro della Fondazione Bellisario, Alda Croce del Centro Pannunzio di Torino nel marzo 2015, Eccellenze del gioiello italiano dell’Italian Women’s Jewellery Association, Melvin Jones Fellow – Lions International Foundation e Il Perugino.
Qual è il suo bilancio di questi anni nella squadra di presidenza di Confindustria? Qual è l’iniziativa di cui è più orgogliosa e cosa invece non è ancora riuscita a realizzare?
«La cosa che mi ha reso più orgogliosa è l’essere riuscita a snellire e compattare il Comitato Internazionalizzazione, creando una squadra formata da 30 presidenti delle associazioni di categoria che rappresentano i settori che sono i maggiori esportatori. Questo ha potenziato significativamente il Comitato e ha fatto sì che, lavorando con il Governo, arrivassimo a importanti risultati di export. Abbiamo operato in maniera molto sinergica con Governo, ICE, Sace e Simest. Per la prima volta si è chiesto alle imprese di cosa avessero bisogno per esportare di più, a livello di singoli settori e categorie. Abbiamo lavorato insieme con una partecipazione vera, cosa che non era mai successa in Italia, a differenza di quanto accade invece da anni e con grandissimi risultati in Francia e Germania. E i risultati si sono visti anche da noi. Per esempio, prima nelle fiere internazionali l’Italia non riusciva a mostrare un’immagine coordinata di sé. Ora abbiamo creato un format comune che può essere usato dal piccolissimo al grandissimo prodotto e che identifica i padiglioni delle partecipazioni collettive italiane in tutto il mondo. Il lavoro di squadra come Sistema Paese ha portato a risultati niente affatto casuali, bensì frutto di un impegno veramente condiviso, come l’aumento dell’export. Dobbiamo anche sottolineare come finalmente il Governo abbia affiancato le imprese in una logica di win-win, ovvero “Vincono le imprese, vince il Paese”. Le stesse ambasciate sono state le più grandi promotrici delle nostre imprese, come mai accaduto prima. È stato un approccio molto interessante, che dimostra che quando gli italiani uniscono le forze il Paese non lo ferma più nessuno».
In passato si è spesso criticato l’Italia proprio per muoversi in maniera disordinata nella promozione del “Made in Italy” con agenzie, regioni, associazioni e distretti ciascuno impegnato in progetti e iniziative indipendenti. Come è ora la situazione?
«Ora la situazione è un po’ più complessa perché, come accade con ogni cambio di Governo, occorre trovare gli interlocutori giusti, ricominciare a ragionare insieme, capirsi anche sui metodi di lavoro. Mi auguro che queste difficoltà siano superate nel breve termine perché è fondamentale non rallentare la macchina in corsa. Nonostante ciò, nell’ambito dell’internazionalizzazione siamo partiti bene: la legge di bilancio ha confermato il budget del Piano per la promozione straordinaria del “Made in Italy”, pur con modifiche nella ripartizione interna delle risorse. Sono state fatte allocazioni diverse e abbiamo chiesto al Governo che, soprattutto per certi settori, venisse mantenuto lo stesso livello di attenzione. Come per esempio per le fiere estere, che hanno visto una riduzione degli stanziamenti. Alcuni settori, come quello dei macchinari, trovano i loro mercati principali all’estero e hanno quindi bisogno di partecipare alle fiere straniere e di attrarre potenziali clienti così come di attivare i centri tecnologici in cui le aziende italiane formano con le proprie macchine studenti stranieri che, un domani, diventeranno i loro migliori clienti, come accaduto già in Asia per il settore delle macchine tessili e della lavorazione delle pelli».
All’estero spesso trova più amore per le nostre eccellenze di quanto ne avverta in Italia. Qual è, secondo lei, il motivo e come è possibile invertire questo squilibrio?
«Sì, è vero, all’estero la percezione dell’Italia e dei prodotti italiani è più alta di quella che abbiamo in patria e le imprese italiane sono considerate le migliori al mondo. Il motivo è da ricercarsi anche nell’atteggiamento degli imprenditori, che lasciano moltissimo nei Paesi in cui si recano. Per esempio in Etiopia un’azienda italiana, la Salini, è molto apprezzata non solo per avere realizzato strade e dighe, ma anche per avere formato gli ingegneri etiopi che ora stanno lavorando nel loro Paese proprio grazie alla formazione ricevuta. Noi italiani lasciamo un’impronta forte, diversa da quella dei nostri competitor. E ancora, parlando di macchinari, si investe in tecnologia italiana perché le nostre macchine sono riconosciute come le più robuste e serie, con un background tecnologico e un servizio di post-vendita di altissimo livello. E questo è un altro aspetto che mi riempie di orgoglio. Ciò che invece dispiace è che in Italia l’industria sia guardata ancora con sospetto, un problema di cui siamo in parte colpevoli anche noi imprenditori perché non sappiamo comunicare in modo efficace le nostre eccellenze. Si parla di impresa solo quando le cose non vanno bene o ci sono difficoltà. Bisogna invece raccontare che ci sono tante aziende che lavorano bene, che fanno welfare e hanno sul territorio una funzione sociale notevole, che abbiamo distretti con specialità e tecnologie diffuse sui territori, know-how, oltre a persone molto preparate in grado inoltre di gestire i problemi, un aspetto questo che nel mondo ci viene riconosciuto. È la nostra forma mentis a essere diversa, approcciamo i problemi facendo lavoro di squadra e trovando sempre soluzioni nuove. Anche questo è il motivo per cui siamo bravissimi a modificare e personalizzare le macchine e a gestire piccole produzioni come grandi volumi. Riusciamo così ad attirare aziende straniere e investimenti. Di contro, in Italia manca la certezza del quadro di diritto sia civile che fiscale: occorrono regole e norme chiare, applicabili e soprattutto armonizzate ai vari livelli della governance, dal locale fino al regionale».
Internazionalizzazione vuole dire anche la presenza di aziende e capitali esteri nelle nostre industrie: secondo lei, quali sono i fattori di attrazione e di freno alla presenza di capitali esteri nel nostro mercato nazionale?
«Partiamo dal presupposto che le piccole aziende, che rappresentano oltre il 90% del tessuto imprenditoriale italiano, non sono in grado di sostenere la globalizzazione proprio a causa delle dimensioni. Bisogna quindi aiutarle a crescere e lo si può fare capitalizzandole. Purtroppo l’ACE (Aiuto alla Crescita Economica), agevolazione introdotta nel 2011 che incentivava il lasciare i capitali in azienda ed era fondamentale per la crescita delle imprese, non è stata più finanziata. Dall’altra parte però non si deve limitare l’accesso a capitali stranieri nelle aziende italiane ed europee, né limitare la creazione di grandi campioni europei. Bisogna fare le cose con giudizio, avere norme europee sul Golden Power, armonizzandole con quelle dei singoli Stati, e far entrare capitali stranieri ogniqualvolta tali ingressi sono positivi. Non mi spaventerei di una crescita globale in un mondo globale, ma bisogna sicuramente fare attenzione a che non vengano accettate acquisizioni predatorie in cui si porta via il know-how delle nostre aziende. Ci deve essere una normativa che specifichi ciò che è accettabile e ciò che non lo è».
In cosa le aziende italiane devono cambiare per essere presenti in modo efficace sui mercati internazionali?
«Innanzitutto bisogna affrontare la questione dimensionale e della preparazione ai mercati internazionali. Uno strumento che purtroppo non è stato adeguatamente rifinanziato e che invece andrebbe potenziato perché ha funzionato molto bene è quello dei Temporary export manager, che consiste nell’inserimento in azienda, per un periodo provvisorio, di figure in grado di supportarla per un certo periodo nelle strategie di export, dalla lingua straniera fino all’impostazione su come approcciare i mercati esteri. Altro tema interessante è la mancanza di strutture di distribuzione all’estero, che rende difficoltosa la promozione dei nostri prodotti oltre confine. Per sopperirvi siamo ricorsi alla promozione dei nostri prodotti sulle catene straniere: lo abbiamo fatto in Gran Bretagna, America, Giappone, Germania e ha funzionato molto bene».
Digitalizzazione e Industria 4.0 possono essere i driver per rendere le aziende italiane più competitive sui mercati esteri?
«Assolutamente sì. Il digitale è una dotazione aziendale non sempre così scontata. È stato molto incrementato dal pacchetto Industria 4.0 che gli ha dato un’importante spinta, ma deve essere portato ancora avanti. Abbiamo e avremo sempre più bisogno di persone con competenze differenti, lasciando la gestione delle operazioni di base al sistema digitale. E qui si inserisce il tema fondamentale della formazione, un plus importante per le imprese e che permette al nostro Paese di crescere nella competitività. Aspetto in cui abbiamo più di una carenza».
Proprio in tema di formazione, fattore indispensabile per lo sviluppo e la crescita delle nostre aziende: quali sono le competenze su cui è più urgente investire?
«Il problema è la mancanza di un dialogo vero tra scuola e industria. Nei prossimi tre anni verranno creati nel nostro Paese circa 200mila posti di lavoro in 6 settori chiave del “Made in Italy”: meccanica, ICT, moda, chimica, alimentare e legno-arredo. Purtroppo in un caso su tre non saranno occupati per la scarsità dell’offerta formativa e di competenze tecnico-scientifiche. Una situazione paradossale, se si pensa che il tasso di disoccupazione giovanile è superiore al 30%. Occorre dunque uno sforzo di investimento nel capitale umano pari almeno a quello nel capitale fisico, per istruire e formare lavoratori in grado di garantire la transizione verso un’economia interconnessa, intelligente e sostenibile. È quindi necessario colmare il mismatch tra offerta formativa e domanda delle imprese, puntando con decisione sull’orientamento e rafforzando l’alternanza scuola-lavoro, che quest’anno è stata dimezzata sia per numero di ore che per risorse a disposizione».
Quando si parla di internazionalizzazione spesso si finisce per parlare di cina e delle grandi potenzialità di quel mercato. Come valuta in quest’ottica i recenti accordi firmati dai governi di Italia e Cina?
«I contratti firmati con la Cina sono sicuramente positivi perché rafforzano gli interscambi tra i nostri Paesi, in un’ottica in cui dobbiamo cercare di essere però più vincenti, perché al momento esportiamo in Cina molto meno di quanto importiamo. I nuovi contratti rappresentano quindi un’apertura e un nuovo approccio. Lo stesso si dica per la Belt and Road Initiative, che non può prescindere dalla nostra collocazione europea e atlantica. Dobbiamo portare le nostre aziende a costruire nei Paesi dove passa la Via della Seta, realizzando infrastrutture e reti di collegamento che facciano arrivare i nostri prodotti in Cina. Paese che ha fatto delle aperture, riducendo per esempio i dazi su numerosi prodotti, ma in cui non è facile essere presenti anche perché non tutti gli standard internazionali sono riconosciuti».
Nel comparto delle macchine utensili si guarda con molto interesse all’accordo di libero scambio tra Europa e Giappone: siamo di fronte a una svolta?
«Negli accordi di libero scambio come quello firmato con il Giappone è importante innanzitutto avere standard comuni, perché il certificare un prodotto o un macchinario già certificato in Italia in un determinato Paese straniero comporta costi importanti che fanno perdere di competitività le nostre aziende. Entrare in una logica di convergenza regolamentare ci permette inoltre di affermare gli standard europei a livello internazionale, invece di subire quelli di Paesi terzi. Ed è per questo che sarebbe così importante un eventuale accordo anche con gli Stati Uniti, perché se mettessimo insieme l’Europa con il mercato americano e tutti gli accordi di interscambio siglati nel frattempo, gli standard da rispettare a livello mondiale diventerebbero i nostri. E di nuovo bisogna potere investire senza dovere cedere i diritti o il know-how aziendale. Nell’accordo con il Giappone, per esempio, è previsto il mutuo riconoscimento di standard tecnici, oltre alla possibilità di fare investimenti in loco in maniera molto più aperta».
Condividi l'articolo
Scegli su quale Social Network vuoi condividere