Terminati gli studi, Lisa Ferrarini entra nell’azienda di famiglia fondata dal padre Lauro nel 1956, iniziando a occuparsi delle fasi della produzione. Da dicembre 2015 è presidente di Ferrarini SpA, una tra le più importanti realtà europee nel settore delle carni e dell’alimentare Made in Italy. Eletta nel 2010 presidente di Assica (l’associazione degli industriali delle carni e dei salumi aderente a Confindustria), della quale era vicepresidente dal 2001. Dal 2011 al 2014 è stata vicepresidente con delega Mercato e Rapporti con la GDO di Federalimentare, e nel 2012 entra a fare parte della giunta nazionale di Confindustria guidata da Giorgio Squinzi, dov’è stata nominata a capo del Comitato Tecnico per la difesa del Made in Italy e la lotta alla contraffazione. Da maggio 2014 è vicepresidente di Confindustria con delega all’Europa, carica confermata nel 2016 con la presidenza di Vincenzo Boccia. Nel settembre 2018 è nominata membro del Comitato Nazionale della Sicurezza Alimentare (CNSA) presso il Ministero della Salute come componente designata dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro in rappresentanza delle associazioni dei lavoratori. Oggi è Consigliere Delegato di Vismara SpA dal 2001, membro dell’Accademia dei Georgofili dal 2005 e membro del Consiglio Generale della Fondazione Cariverona dal 2016.
di Edoardo Oldrati
Nella squadra di presidenza lei ha la delega per l’Europa: qual è il ruolo di Confindustria nella comunità europea?
Confindustria rappresenta e difende gli interessi del sistema industriale italiano presso le istituzioni europee. Attraverso la nostra delegazione di Bruxelles svolgiamo infatti un’importante attività di advocacy sia in riferimento alle tematiche legislative che alle opportunità progettuali proposte dall’UE. Tale attività, svolta in stretto coordinamento con la sede centrale di Confindustria a Roma e con il nostro sistema associativo, comprende tra l’altro il monitoraggio delle iniziative dell’Unione, l’informazione e l’aggiornamento sulle evoluzioni dei dossier che vengono dibattuti presso le sedi comunitarie, oltre all’organizzazione di corsi di formazione su tematiche europee e di supporto all’accesso ai finanziamenti diretti.
Confindustria ha ribadito più volte la centralità della dimensione comunitaria: perché l’Europa è così importante per il nostro sistema industriale?
L’Europa è la più grande area economica del pianeta con un PIL pari a oltre un quinto di quello mondiale, più di 500 milioni di consumatori e oltre 23 milioni di imprese. Basti pensare che su un valore totale di export di beni per 450 miliardi di euro, 250 sono destinati al mercato unico. Si tratta di un gigante economico in cui le nostre aziende vivono un contesto caratterizzato dalla libera circolazione di persone, capitale, merci e servizi. In una parola, l’Europa è imprescindibile. Non possiamo pensare di fare crescere le nostre imprese al di fuori di questo paradigma. Al contrario, dobbiamo lavorare in modo costruttivo per migliorarla e fare sì che diventi più dinamica attraverso la creazione di un vero e proprio ecosistema business oriented che metta l’industria al centro.
Avete in programma o già in corso dei progetti di collaborazione con le associazioni industriali di altri Paesi europei? Su quali argomenti le varie Confindustrie europee possono collaborare?
Da molti anni lavoriamo insieme alle altre Confindustrie europee, in particolare con gli amici tedeschi della BDI e francesi del Medef. Con i primi organizziamo dal 2010 l’appuntamento annuale nella cornice di Bolzano insieme ad Assoimprenditori Alto Adige. Quest’anno la nona edizione si è tenuta il 30-31 ottobre ad approfondire il tema del digitale e in particolare dell’intelligenza artificiale. Mentre con i cugini francesi abbiamo già confezionato due bilaterali, uno a Roma e uno a Versailles. Il coronamento di questa lunga e fruttuosa collaborazione è stato il primo trilaterale tra Confindustria, BDI e Medef svoltosi il 4 dicembre a Roma.
I terreni di collaborazione sono molti, tra i più significativi la politica industriale e la necessità di un suo rilancio a livello europeo, il digitale, l’energia, le PMI che devono essere la base su cui portare avanti, uniti, le nostre istanze. Un altro tema è poi quello dell’azione esterna dell’UE che deve essere rafforzata, specialmente in un periodo instabile dal punto di vista internazionale.
Nel 2019 c’è stato il rinnovo del Parlamento europeo e della Commissione: quali devono essere secondo lei le loro priorità oggi?
Innanzitutto è essenziale istituire gli strumenti per raggiungere la coesione territoriale, sociale ed economica. Per far questo, abbiamo bisogno di un ambizioso piano di investimenti pubblici e privati in infrastrutture materiali e immateriali come TAV e 5G, e in Ricerca e Innovazione, per creare un’Unione prospera e inclusiva che, favorendo la mobilità dei lavoratori, dei ricercatori e delle merci mantenga l’eccellenza europea nei mercati globali.
Un altro passaggio cruciale è la creazione di un mercato unico digitale che favorisca lo sviluppo dell’industria europea, visto che la frammentazione in confini nazionali non permette alle imprese di raggiungere dimensioni comparabili a quelle statunitensi. È poi importante portare avanti lotta alla contraffazione, tracciabilità, Made in Italy e, in generale, preservare e promuovere standard di qualità legati alla sostenibilità ambientale e sociale. Confindustria continuerà a impegnarsi affinché, anche a livello europeo, si acquisisca la consapevolezza che la protezione effettiva dei consumatori passa attraverso il sostegno alle nostre produzioni di qualità e di eccellenza, soprattutto ora che ci troviamo in un contesto di concorrenza internazionale sempre meno leale. Infine, al centro dell’azione dei nuovi organi comunitari ci sarà la presentazione di un Green New Deal europeo. Su questo punto auspichiamo che venga mantenuto dalla Commissione un approccio che favorisca la transizione verso un’economia verde, senza inserire criteri penalizzanti per specifici settori industriali.
In questi mesi si è parlato molto degli accordi commerciali internazionali (per esempio CETA): sono la strada da seguire? Quali possono essere i prossimi Paesi?
Di fronte al deterioramento del quadro multilaterale, l’Europa ha un’unica strada per guadagnare accesso ad aree strategiche: quella bilaterale. Gli accordi di libero scambio sono infatti il solo antidoto alle tendenze protezionistiche che oggi frenano le prospettive di crescita. I risultati conseguiti da Bruxelles negli ultimi mesi su questo piano sono senza dubbio significativi.
L’accordo con il Giappone è entrato in vigore lo scorso 1° febbraio e poche settimane dopo il Parlamento Europeo ha approvato quello con Singapore. L’accordo con il Vietnam, concluso nel 2015, è stato firmato il 30 giugno scorso, due giorni prima che si trovasse l’intesa politica con il Mercosur dopo 20 anni di trattative. Attualmente l’UE è impegnata in negoziati con Australia e Nuova Zelanda, ma anche con Malesia, Filippine e Thailandia. In parallelo a questo, trovo tuttavia ancora più urgente che la nuova Commissione riavvii i negoziati con gli Stati Uniti per evitare che le minacce dell’amministrazione Trump si tramutino in un’ulteriore guerra commerciale, e che si doti di una strategia chiara, condivisa e assertiva nei confronti della Cina.
La guerra dei dazi tra USA e Cina preoccupa molti analisti per il suo impatto per le nostre aziende: è davvero un pericolo per l’Italia?
La guerra commerciale fra USA e Cina rappresenta senza dubbio il principale fattore di instabilità e la più grave minaccia allo sviluppo globale. I suoi effetti sono già ben visibili sulle più importanti variabili economiche – PIL, commercio e investimenti – e nessun Paese può dirsi al riparo.
Men che meno l’Italia, che si è storicamente contraddistinta per la sua capacità di operare e competere sui mercati globali e che dall’export di beni e servizi trae circa un terzo della propria ricchezza. Il nostro auspicio è naturalmente che i negoziati fra Washington e Pechino portino al più presto a un accordo che ponga fine all’escalation.
Ma c’è un elemento che dobbiamo valutare con grande attenzione. La polarizzazione del mondo in due blocchi contrapposti guidati da Stati Uniti e Cina rischia di marginalizzare l’Europa, estromettendola dal processo decisionale che si appresta a ridisegnare la governance globale. Un’eventualità che deve essere invece assolutamente scongiurata. Solo sotto il cappello dell’Europa i singoli Paesi membri potranno infatti avere voce in capitolo nella definizione delle regole globali.
Per anni si è detto che per il sistema industriale italiano valeva il principio “piccolo è bello”, alcuni indicano invece nelle ridotte dimensioni aziendali la principale criticità delle nostre aziende. Lei che ne pensa?
L’industria del futuro richiede dimensioni adeguate. Come ha più volte ripetuto anche il presidente Boccia, “piccolo non è bello in sé ma è solo una fase della vita delle imprese, si nasce piccoli e poi si diventa grandi”. La crescita dimensionale è un salto necessario da realizzare sotto il profilo culturale, cioè in termini di conoscenza, governance e struttura aziendale prima ancora che in termini di fatturato o di addetti. Bisogna quindi concentrare l’attenzione sull’innovazione del nostro modello industriale ponendolo all’altezza delle nuove sfide globali, promuovendo le reti e la crescita qualitativa nonché relazionale delle imprese.
La digitalizzazione rende ancora più urgente la formazione degli operatori nelle nostre aziende: cosa risponde alle aziende, magari piccole, che dicono di non avere risorse per affrontare questa evoluzione?
Serve un approccio culturale più aperto verso la digitalizzazione, considerandola un investi mento che determina un salto di qualità e proietta le imprese verso il futuro, aumentandone la competitività. Secondo il rapporto “Digital economy and society index” della Commissione Europea, nel 2018 l’Italia si è collocata al 24° posto su 28 per competitività digitale e al 23° posto per integrazione delle tecnologie digitali da parte delle aziende. L’Italia è quindi in ritardo rispetto agli altri principali Paesi europei, ma dal 2016 si è dotata di una strategia di policy di medio-lungo periodo in linea con le best practice internazionali, il Piano Nazionale Industria 4.0. La principale misura con cui il Governo italiano ha sostenuto gli investimenti in beni strumentali alla trasformazione digitale delle imprese è stato lo strumento dell’iperammortamento, che si stima abbia riguardato 10 miliardi di investimenti agevolati per macchinari e attrezzature. Si tratta di una misura importante, che è stata utilizzata prevalentemente da imprese piccole e medie del settore manifatturiero con in testa il comparto dei prodotti in metallo, davanti a meccanica strumentale e chimica.
Qual è la prima sfida da vincere per il manifatturiero italiano nel 2020?
Nonostante la contrazione dei livelli di attività subita negli anni della crisi, l’Italia è rimasta la settima potenza manifatturiera del mondo dopo Cina, Stati Uniti, Giappone, Germania, Corea del Sud e India. A questo ruolo ne corrisponde uno altrettanto rilevante dal punto di vista della capacità di esportare, che ci vede al nono posto nel mondo. Questo a conferma della solidità della nostra industria. Ma bisogna lavorare per migliorare la posizione e stare attenti a non arretrare, investendo di più soprattutto in digitalizzazione e sostenibilità. Va inoltre notato che una parte rilevante del sistema produttivo ha imboccato la via dell’upgrading qualitativo per rispondere alla crescente concorrenza di prezzo proveniente dal mondo emergente, spostandosi su fasce di mercato a maggiore contenuto di valore aggiunto e riposizionando in alto il sistema manifatturiero italiano sui mercati internazionali senza sacrificare il valore complessivo delle esportazioni, ma anzi contribuendo ad accrescerlo.
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