Intervista a Marco Fortis, direttore e vicepresidente della Fondazione Edison, docente alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica e consigliere economico del presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi
Sulla poltrona di Tecnologie Meccaniche (i numeri di Tecnologie Meccaniche sono leggibili on line previa registrazione gratuita) si è seduto Marco Fortis, che oltre a essere direttore e vicepresidente della Fondazione Edison insegna Economia Industriale e Commercio Estero alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica, e dal settembre 2014 è tra i consiglieri economici del presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi. È anche co-editor della rivista Economia Politica – Journal of Analytical and Institutional Economics, nonché autore di numerosi libri di economia italiana e internazionale, editorialista per Il Sole 24 Ore e Il Messaggero, vicepresidente della Fondazione Donegani, membro dei Comitati scientifici della Fondazione Edison, del CRAnEc (Centro Ricerche in Analisi Economica) dell’Università Cattolica e Nomisma. Fa anche parte del Comitato esecutivo di Aspen Institute Italia e dall’agosto 2015 è consigliere d’amministrazione alla RAI.
L’economia italiana sta attraversando una fase positiva, possiamo parlare finalmente di ripresa?
Indubbiamente oggi è in corso una ripresa dell’Italia nell’ambito dell’Eurozona, lo evidenzia il tasso tendenziale di crescita del Pil che è stato 1% nell’ultimo trimestre del 2015 rispetto al quarto trimestre 2014. Questo dato va confrontato con un tasso del 1,3% in Germania e del 1,4 % in Francia nello stesso periodo. Quindi, se guardiamo l’ultimo trimestre del 2015, l’economia italiana è cresciuta di più della semplice media annua, il famoso 0,8%, e si è avvicinata molto al tasso di crescita dei due maggiori paesi dell’Eurozona. Consideriamo anche i dati positivi dell’occupazione, al di là delle oscillazioni mensili dei dati abbiamo recuperato 300mila occupati stabili in più rispetto all’inizio del 2014. Un ulteriore segnale positivo arriva dalla ripresa dei consumi delle famiglie che nel quarto trimestre sono cresciuti a un tasso tendenziale vicino all’1,3%. Sono invece ancora deboli gli investimenti, mentre le esportazioni risentono del rallentamento delle economie dei paesi emergenti.
In questo quadro positivo, quali incognite vede per la nostra economia?
Sono convinto che le minaccia siano di natura esterna: la prima incognita riguarda i paesi emergenti le cui economie hanno rallentato pesantemente, anche a causa della caduta del prezzo del petrolio. Guardiamo i cosiddetti BRIC (Brasile, Russia, India e Cina): il Brasile è nel pieno di una pesantissima recessione iniziata due anni fa e che proseguirà anche nel 2016; la Russia attraversa una fase di chiusura quasi totale a causa della riduzione del potere d’acquisto e del blocco degli scambi; l’India è ancora dinamica ma per ora è per noi un mercato poco importante, mentre anche la Cina nel 2015 ha rallentato la sua crescita. La seconda incognita è rappresentata invece dalla situazione di due importanti partner europei: i dati Markit di marzo mostrano infatti la Francia quasi in contrazione e la Germania a rischio stagnazione. Considerando anche le difficoltà di questi due Paesi guida dell’Eurozona sono convinto che la domanda estera nel suo complesso rimarrà quindi relativamente stazionaria, le aziende di meccanica che puntano molto su questi mercati devono tenerlo presente. Per queste ragioni nel 2016 è fondamentale puntare sulla domanda interna italiana dove, anche per la forte ed innaturale contrazione determinata dall’austerità, abbiamo rispetto ad altri Paesi un potenziale di recupero a disposizione.
Spesso gli italiani ignorano gli indicatori positivi, mettendo in evidenza solo quelli negativi. Come possiamo rispondere a chi pensa che la nostra industria sia in crisi?
Partiamo da un dato: l’industria manifatturiera italiana ha saputo reagire bene alle difficoltà di questi anni e oggi il nostro sistema è uno dei soli cinque al mondo ad avere una bilancia commerciale manifatturiera superiore ai 100 miliardi di dollari. L’Italia è infatti quinta in questa classifica dopo Cina, Germania, Corea del Sud e Giappone, mentre, per un confronto, tutti gli altri paesi del G20, Stati Uniti compresi, hanno una bilancia in negativo. Questo perché la struttura industriale dell’Italia, abbinata ad altri settori dell’economia reale come l’agricoltura, al primo posto nel 2015 per valore aggiunto e addetti in Europa, e il commercio e turismo, dove siamo il terzo paese europeo, la mantiene importante nel panorama economico mondiale. Tra gli elementi positivi per l’economia dobbiamo aggiungere anche la ricchezza privata sia finanziaria sia immobiliare che, anche se fortemente colpita dalla crisi, è ancora una delle più alte al mondo. Inoltre, dal 1992 al 2015 con la sola eccezione del 2009, l’Italia ha sempre avuto, unico tra i grandi Paesi del mondo, un saldo positivo primario del settore pubblico, cioè prima del pagamento degli interessi sul debito. Questa capacità del nostro Paese di governare il debito pubblico, pur elevato per la cattiva eredità lasciataci dalla Prima Repubblica, conferma la stabilità del sistema Italia. Non c’è dubbio che il debito pubblico debba diminuire, ma a oggi ciò che frena la discesa del rapporto debito/Pil è soprattutto la bassa crescita.
Le aziende italiane manifatturiere sono molto competitive nei mercati internazionali. Ma cosa potrebbero fare per essere ancora più efficaci?
È importante oggi che anche imprese piccole e medie sviluppino una visione del mercato internazionale non occasionale, ma basata su una presenza stabile. Per raggiungere questo obiettivo le Pmi devono cogliere le opportunità che derivano dalle iniziative del Governo e delle istituzioni pubbliche a favore dei processi di internazionalizzazione, anche perché, rispetto agli ultimi anni, gli investimenti del Governo a sostegno dell’export sono stati quadruplicati.
Inoltre, credo che le imprese dovrebbero puntare ancora di più sulla tecnologia e, soprattutto, sul servizio al cliente. Infatti, quello che caratterizza maggiormente il successo della nostra meccanica all’estero è proprio la capacità di fornire prodotti quasi tailor-made. Questa caratteristica è stata confermata anche dal successo che i costruttori italiani di macchine utensili stanno avendo negli Stati Uniti, un mercato trainante oggi grazie alla sua capacità di conservare una forte manifattura soprattutto in ambito hi-tech.
Le aziende italiane dovrebbero altresì fare leva su una buona diversificazione dei mercati, altrimenti è sufficiente una crisi in un solo Paese per determinare conseguenze molto negative. Pensiamo alla Russia, le aziende che avevano puntato su quel mercato in modo massiccio, ad esempio i calzaturieri delle Marche, oggi sono in gravi difficoltà a causa della sua sostanziale chiusura.
Industry 4.0 è un brand nato in Germania, ma è indubbio che ben rappresenti un vera evoluzione delle tecnologie produttive. È importante che l’Italia sviluppi un suo brand legato a queste tecnologie, penso a “Fabbrica intelligente” per esempio, o può essere più funzionale sfruttare il lavoro di promozione fatto dai tedeschi e concentrarsi sull’aspetto tecnologico del tema?
L’industria italiana deve seguire il nostro modello di “fabbrica intelligente” e non per forza adottare come modello di riferimento in ogni aspetto l’Industry 4.0. Questo sempre tenendo conto dei cambiamenti in atto negli altri paesi manifatturieri, in primis la Germania e delle necessità di relazionarsi con loro nelle forniture e negli scambi di tecnologie. Il punto chiave è che al nostro interno abbiamo delle esigenze specifiche di ammodernamento e di innovazione a cui è possibile rispondere con più efficacia sviluppando un nostro modello di Fabbrica intelligente.
I distretti tecnologici hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo industriale italiano. Possono essere una risorsa importante anche oggi? Come devono evolversi per essere rilevanti anche negli scenari economici attuali?
Il problema non è tanto di offerta, quindi nella capacità dei distretti di sviluppare prodotti e innovazione; ma di rallentamento della domanda interna non solo italiana, ma anche europea. Serve che ripartano gli investimenti, che calando hanno comportato anche l’invecchiamento del parco macchine, e per questo sono necessari stimoli, anche perché tante aziende hanno capacità produttiva inutilizzata e quindi non sono portate a dotarsi di nuove macchine. Sono tuttavia convinto che operazioni come il Superammortamento e la Nuova Sabatini rappresentino un’opportunità importante per le aziende in crescita e mi auguro che il manifatturiero italiano le sappia cogliere in modo da poter ammodernare il più possibile il proprio parco macchine.
L’industria cambia e cambiano anche le competenze di cui necessita. Quali sono le nuove figure professionali richieste e in che modo le Università possono contribuire a formarle?
Serve più confronto tra tutti gli attori: devono quindi palesarsi meglio le richieste delle imprese in modo da poter stimolare un’offerta di servizi formativi adeguata. Soprattutto è importante che si realizzi una maggiore collaborazione tra industria, università e istituzioni in modo da capire quelle che sono le traiettorie che bisogna percorrere tutti insieme, senza ritardi e asimmetrie temporali tra le parti. L’industria non può studiare la fabbrica intelligente per 10 anni e poi dover spiegare alle Università e al Governo le proprie necessità! È fondamentale che tutti capiscano che stanno cambiando tecnologie e modelli organizzativi e che bisogna adeguarsi di conseguenza agendo in modo concertato.
In un recente convegno ricordava un suo grande sogno, una Legge Sabatini per tutta l’Europa. È un sogno impossibile? Bruxelles non ritiene una priorità l’ammodernamento del parco macchine continentale?
Oggi, in questa Europa immobile che fatica a trovare soluzioni e che è chiusa nelle sue paure e nelle sue divisioni, anche su problemi importanti come l’immigrazione, un’iniziativa di questo tipo mi sembra un sogno. Lo stesso piano Junker sembrava inizialmente un progetto importante, invece sta mancando la forza per renderlo efficace. Purtroppo questa Europa ha spesso lanciato manifesti su tecnologia e innovazione, sostenendo che l’industria deve tornare ad avere un peso importante nel suo Pil, ma cosa sta facendo realmente per farlo? Stiamo ammodernando la nostra manifattura? No, mancano gli investimenti europei, per esempio in infrastrutture e tecnoscienza. Credo servirebbe un piano di eurobond per gli investimenti più forte delle poche cartucce che sta sparando il piano Junker. Servirebbero però anche delle iniziative in grado di trasformare questa realtà come, ad esempio, un progetto di ammodernamento dei macchinari su scala europea. Fra l’altro, di questo progetto beneficerebbero per prime proprio imprese europee perché siamo dei grandi costruttori di macchinari. Semplicemente, se vogliamo continuare ad avere un peso nella manifattura mondiale, non possiamo pensare di avere fabbriche con macchinari che hanno 15-20 anni di età e non sono più performanti. Per questo credo che una Legge Sabatini per tutta Europa sia un giusto obiettivo da avere, ed è forse il momento di fare di più per spingere l’Europa a trasformare questo sogno in realtà.
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