Abbiamo incontrato Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano, per parlare di innovazione nel manifatturiero italiano e di presente e futuro dell'università italiana.
Abbiamo incontrato Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano, per parlare di innovazione nel manifatturiero italiano e di presente e futuro dell’università italiana.
Oggi, a fine del 2017, qual è lo stato di salute delle istituzioni universitarie italiane e, in particolare, del Politecnico di Milano?
Il Politecnico è in buona salute. Dal 2010 a oggi i nostri laureati sono aumentati del 35% e gli studenti stranieri sono più che raddoppiati. Al termine degli studi i nostri ragazzi si inseriscono velocemente nel mondo del lavoro e in modo stabile: a un anno dal titolo è impiegato l’85% degli architetti; l’88% dei designer e il 97% degli ingegneri. In un contesto mondiale in cui crescono le università asiatiche, rincorse a fatica da quelle europee e americane, il nostro posizionamento migliora. Abbiamo guadagnato 100 posizioni nel ranking internazionale negli ultimi sette anni, classificandoci tra i primi 200 atenei al mondo. Direi che, nonostante i limiti di cui soffre il sistema universitario italiano, le cose da noi vanno piuttosto bene, risultato della nostra capacità di far sistema con le istituzioni e con le imprese.
Il Piano Industria 4.0 del governo prevede un ruolo fondamentale per i competence center: come interpreterà questo ruolo il Politecnico di Milano? Quali aspetti dell’Industria 4.0 intendete approfondire?
I competence center sono pensati dal Piano Calenda come dei centri di eccellenza tecnologica. Su spinta del Politecnico, nascerà a nord di Milano il “Bovisa Innovation District”. Come per i migliori science park internazionali, e coerentemente con gli obiettivi e le azioni che abbiamo già avviato nell’ambito di industria 4.0, favoriremo la sinergia tra università e imprese ad alto potenziale tecnologico. Il progetto, finanziato con 1,2 milioni di euro, la metà dei quali da Regione Lombardia, supporterà le imprese manifatturiere lombarde per la digitalizzazione dei processi produttivi e l’accelerazione di startup innovative. Un vero e proprio nodo attrattivo che ospiterà PoliHub, il nostro incubatore, il Competence Centre del Mise e Polifactory.
Qual è la sua idea di “fabbrica intelligente”? Come vede la fabbrica del futuro?
Viviamo oggi un momento intenso, effervescente, che con urgenza ci chiede di ridisegnare il futuro industriale del nostro Paese. Per mantenere una leadership nel manifatturiero, credo che sia necessario valorizzare i nostri punti di forza: creatività, flessibilità e innovazione tecnologica. Saranno questi i tre pilastri della fabbrica del futuro. Non dobbiamo commettere l’errore di sfidare la capacità organizzativa tedesca o la capacità di ragionare su grande scala tipicamente cinese. Per creatività intendo l’integrazione delle tecnologie digitali nel prodotto e nella produzione; queste apriranno scenari e mercati imprevedibili fino a qualche anno fa.
Basti pensare ai droni per la logistica, la manutenzione, la sicurezza, l’intrattenimento; ai dispositivi biometrici e alle novità nel comparto della salute o del benessere. La flessibilità riguarda l’enorme disponibilità di dati che ci permetterà di trovare soluzioni innovative e personalizzate. Per portare un esempio su tutti, faccio riferimento alle tecniche di produzione additiva che troverà la sua sfida nella produzione di grandi dimensioni e nella lavorazione dei metalli. Ultima, l’innovazione tecnologica che, in scenari di forte urbanizzazione, ci costringerà a nuove soluzioni in contesti più ampi, come quello dell’abitare, della mobilità, della sostenibilità in tutte le sue forme: smart building, storage energetico, mobilità elettrica e autonoma, smart working… Tutti mercati di grande interesse. Questi sono gli ingredienti, ma le ricette sono tutt’altro che scontate
In cosa deve migliorare (o cambiare addirittura) il Politecnico di Milano oggi per affrontare le sfide dei prossimi anni?
Date le premesse, le sfide che ci attendono sono molte e complesse. Come Politecnico di Milano, abbiamo identificato cinque aree strategiche: le smart cities, quindi i temi della sicurezza, della connettività, degli smart building, della mobilità; la manifattura 4.0, dallo smart working ai nuovi sistemi di produzione (evoluti e adattativi), alla sensoristica, ai big data; la salute e il benessere, dai dispositivi biometrici alla modellistica matematica per l’analisi dei dati; la fragilità del territorio, dalle tecnologie in risposte alle calamità naturali alla gestione delle risorse naturali; per finire con il monitoraggio e la valorizzazione dei beni culturali.
Parlando di trasferimento tecnologico tra mondo accademico e imprese, tema di cui lei si occupato a lungo, spesso ci si concentra su cosa dovrebbero fare gli atenei per incrementarlo. Proviamo però a ribaltare l’argomento, cosa potrebbero fare invece le imprese per facilitarlo?
Premetto che è fondamentale accorciare le distanze tra università e impresa, in termini di risorse umane e di risultati della ricerca. Le imprese fanno molto e possono fare ancora di più. Il Politecnico di Milano ha risorse importanti in termini di strutture di ricerca, i laboratori, e di persone, i ricercatori e gli studenti. Presidiamo con grande attenzione i risultati della ricerca, attraverso il Technology Transfer Office e l’Accelleratore d’Impresa, PoliHub, secondo una catena molto chiara che va dall’idea, alla brevettazione alla creazione d’impresa. Da noi nascono circa 1.000 idee progettuali l’anno.
Da questo punto di vista, credo che l’approccio accademico meriterebbe una riflessione attenta, che inverta la rotta che tradizionalmente opera dalla tecnologia verso il mercato. Andrebbe fatto uno sforzo in senso opposto per colmare il vuoto tra ricerca scientifica e applicazione industriale. Penso al POC, al proof o concept, che si rivolge a studenti e ricercatori che hanno già elaborato un brevetto a basso grado di maturità tecnologica. È fondamentale verificare il potenziale innovativo di idee e applicazioni derivanti dalla ricerca, per implementare soluzioni focalizzate sulla reale comprensione dei bisogni di innovazione delle imprese. La proposta è quella di dar vita a un “tavolo di innovazione congiunta” che unisca chi detiene le competenze tecnologiche, chi le tecnologie e chi il mercato. Vogliamo disegnare insieme le politiche di innovazione.
Leggiamo quotidianamente di risultati importanti raggiunti da ricercatori, dottorandi e borsisti italiani presso atenei esteri. Credete ci sia margine per invertire questa tendenza e fare dell’Italia un Paese in grado di trattenere talenti e anzi attrarne dall’estero?
Non credo che attrarre talenti dall’estero sia in contrapposizione con il trattenere i nostri ricercatori. Oggi le nuove generazioni si muovono con facilità, c’è maggiore mobilità e questo è un dato di fatto. Al Politecnico il numero di persone che trovano lavoro all’estero è identico a quello degli stranieri che, laureatisi da noi, trovano impiego in Italia. Siamo quasi in equilibrio. Non bisogna pensare a misure dedicate ad arginare la fuga, quanto a soluzioni che possano rendere il nostro territorio attrattivo per figure di alta professionalità.
Questo è un tema caro non solo all’accademia, ma anche al mercato del lavoro. L’importante è non essere costretti ad andarsene perché qui non ci sono opportunità. L’attrattività del territorio è il nostro vero obiettivo, poter inserire il Politecnico tra le destinazioni di chi sceglie dove andare a studiare e fare ricerca e di chi sceglie di rimanere in Italia. Questo dipende da molti fattori: una buona offerta formativa, innovativa e di livello, ma anche spazi adeguati, laboratori sperimentali e naturalmente la possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, prestando molta attenzione alle attività di placement. Per tornare alla domanda di prima, le imprese per noi sono fondamentali, sia come partner di ricerca sia come elemento di attrattività a livello occupazionale.
Nel futuro del Politecnico di Milano è fondamentale la dimensione internazionale: quali iniziative e partnership possono aiutare l’Ateneo a crescere ulteriormente sotto questo aspetto?
L’internazionalizzazione non è il futuro del Politecnico, ma il suo presente. Basti pensare che, ad oggi, abbiamo attivato 951 accordi a livello mondiale.
Ne cito due tra tante. Nel 2016 siamo entrati in IDEA League, un’alleanza strategica fra cinque università europee di primaria importanza in ambito tecnologico e scientifico, che promuove programmi e progetti per studenti, dottorandi, ricercatori, docenti e staff per sviluppare le capacità e le competenze di tutti coloro che studiano e lavorano nelle università partner. Le università che fanno parte della rete sono, oltre a noi, delle assolute eccellenze: ETH – Zurich, TU – Delft, RWTH Aachen e Chalmers University. Siamo membri anche di Alliance4Tech, un’alleanza strategica con l’obiettivo di creare un Campus Europeo senza confini per studenti e docenti di CentraleSupélec di Parigi, Politecnico di Milano, Technische Universität Berlin e University College London. Quattro istituzioni situate nel cuore economico dell’Europa, diverse per cultura e tradizione ma unite dalla passione per l’innovazione tecnologica.
Abbiamo poi consolidato le relazioni con la Cina nella forma di un campus congiunto a Milano con la prestigiosa Tsinghua University e a Xi’an con le imprese italiane per un Innovation Hub.
Quale sarà l’identikit dell’ingegnere che uscirà dal Politecnico di Milano nel 2023?
Sicuramente un ingegnere preparato, con conoscenze solide, al quale garantiremo un’offerta formativa di qualità. Detto ciò, la rapida evoluzione del contesto tecnologico richiede nuove professionalità, ancora difficili da rintracciare con esattezza. Esiste un’esigenza di trasformazione delle competenze richieste dal mondo del lavoro e maggiore flessibilità. Dobbiamo quindi potenziare le figure tecnico scientifiche non solo nelle competenze disciplinari, ma anche nelle capacità progettuali, di problem solving, di “pensiero critico”. In questa direzione va il nostro impegno verso il rinnovamento didattico, nei contenuti e nelle modalità; riflettiamo su figure professionali più vicine ai bisogni delle imprese e, in generale, del mercato del lavoro; incentiviamo gli scambi internazionali e i progetti interdisciplinari con altri atenei. Siamo chiamati a un difficile compromesso tra una forte preparazione sulle discipline di base e una formazione innovativa e attrattiva. Per questo abbiamo avviato azioni per potenziare la qualità dei campus universitari, analizzare nuovi percorsi di laurea e richiesto un maggiore coinvolgimento di professionisti nell’offerta formativa.
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